Ogni anno, quando arriva giugno, le bacheche si riempiono di arcobaleni. E come ogni simbolo che diventa mainstream, il rischio è sempre lo stesso: perdere il senso, il perché. Così quest’anno ho deciso di raccontare il Pride a modo mio: attraverso tre storie. Tre linguaggi. Tre domande.
Né lezioni, né slogan. Solo un invito a riflettere su cosa possiamo fare — davvero — nei luoghi di lavoro che abitiamo ogni giorno.
Il primo post è stato un omaggio al film Pride (2014). Una storia vera, ambientata nell’Inghilterra degli anni Ottanta, in cui un gruppo di attivisti LGBTQ+ decide di sostenere i minatori in sciopero.
Senza calcolo politico. Senza garanzie. Solo perché “la loro lotta è anche la nostra”.
Perché l’ho scelto?
Perché parla di alleanze inaspettate, quelle che nascono quando smettiamo di guardarci come categorie e iniziamo a riconoscerci come persone. In aula, nei team, nei corridoi delle aziende, succede ogni giorno. Ma solo se lo permettiamo.
Domanda:
E tu? Per chi scegli di esserci, anche se non ti riguarda direttamente?
Nel secondo post ho raccontato una canzone che ha fatto la storia, Smalltown Boy dei Bronski Beat. Una melodia anni ’80, una voce altissima e una verità dura: la fuga come unica via per essere liberə.
Perché l’ho scelta?
Perché parla a chi, ancora oggi, deve “fare le valigie” — fisicamente o emotivamente — per potersi sentire sicuro. Anche nel mondo del lavoro.
E perché ci ricorda che l’inclusione non è una policy: è la possibilità, concreta, di restare dove si è, senza dover fingere.
Domanda del post:
Le persone nella tua azienda si sentono abbastanza sicure da restare?
O stanno solo imparando a sorridere mentre pensano di andarsene?
Il terzo post è stato il più “sobrio”. Niente film, niente musica.
Ho scelto di parlare di La fiducia, il libro di Pete Buttigieg — ex sindaco, oggi ministro negli Stati Uniti, credente, omosessuale dichiarato, marito e padre. Un leader competente e autentico, che non ha mai usato la sua identità come manifesto. Ma nemmeno l’ha mai nascosta.
Perché l’ho scelto?
Perché non si può parlare di fiducia senza visibilità. E perché in azienda, spesso, ciò che trattiamo come “personale” ha invece un impatto diretto sul benessere, sulla sicurezza psicologica e sull’energia che le persone portano al lavoro.
Domanda :
E tu, nel tuo ruolo, che segnali stai dando?
Stai creando un contesto in cui le persone si sentono davvero libere di essere chi sono?
Parlare di Pride nelle aziende non è solo una questione di comunicazione, ma di scelte quotidiane.
È chiedersi se la cultura che promuoviamo rende le persone più libere, più vere, più fiduciose.
Io ho scelto di raccontarlo così: con un film, una canzone e un libro.
Tre voci diverse per dire, in fondo, una cosa sola:
la vera inclusione comincia quando smettiamo di dare per scontato che tutti si sentano al sicuro.
E tu, come lo racconti il Pride nel tuo lavoro?
Scrivimi, se ti va.
Parliamone.
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